Artemisia Gentileschi è un’artista che ha sempre affascinato per la sua forza d’animo e intraprendenza, per la tenacia che dimostrò nell’affrontare i pettegolezzi e pregiudizi infondati sul suo conto e per il suo grandissimo talento pittorico, che la rese una delle pittrici più emergenti nel panorama italiano seicentesco e rimane ancora oggi un emblema ed orgoglio per il nostro patrimonio artistico-culturale. Artemisia affrontò la pittura “alta”, fino a quel momento trattata esclusivamente dagli uomini: nudi di corpi femminili e maschili, personaggi dinamici, scene riprese direttamente dagli antichi testi biblici che miravano a sconvolgere e rapire lo spettatore.
A 17 anni, venne violentata dal suo maestro di prospettiva Agostino Tassi, a cui l’aveva indirizzata il padre Orazio. Solo dopo mesi Gentileschi ebbe il coraggio di denunciare lo stupro, un fatto piuttosto raro all’epoca. Artemisia fu costretta a tenere lunghe sedute in cui doveva raccontare ogni volta nei minimi particolari la violenza subita, venne più volte sottoposta a interrogatori sotto tortura da parte delle autorità giudiziarie per verificare la veridicità delle sue accuse: le dita delle mani vennero fasciate con delle funi fino a farle sanguinare e per accertarsi dell’effettivo stupro dovette umiliarsi con lunghe visite ginecologiche. Tassi venne infine condannato a cinque anni di esilio, ma non scontò mai veramente la pena. La Gentileschi, dopo un matrimonio riparatore si trasferì a Firenze, lontana dei pettegolezzi e dalle calunnie che ormai la opprimevano a Roma, e lontana anche dall’influenza artistica del padre, senza la quale riuscì a farsi un proprio nome e affermarsi professionalmente. Nonostante ciò il desiderio di rivalsa e riscatto dopo la violenza subita e per la situazione femminile dell’epoca, non la abbandoneranno neanche nei suoi dipinti, tra cui uno dei suoi più celebri: ''Giuditta decapita Oloferne''.
L'episodio al quale si riferisce l'opera è narrato nel Libro di Giuditta: l'eroina biblica, assieme ad una sua ancella, si reca nel campo nemico; qui seduce e poi decapita Oloferne, il feroce generale assiro. Le tre figure disposte a triangolo compiono movimenti studiati e precisi e la torsione del busto di Giuditta aggiunge alla scena dinamismo.
L'analisi del quadro, in chiave psicologica, ha portato alcuni critici a vedervi il desiderio femminile di rivalsa rispetto alla violenza sessuale subita, ma anche una richiesta di rispetto per il proprio ruolo di donna violata e di pittrice professionista; al tema biblico dunque si sovrappone un forte voglia di rivalsa sulla prepotenza maschile. Artemisia infatti rappresenta nel quadro l’esatto istante in cui Giuditta sta decapitando Oloferne con la sua stessa spada, mentre l’ancella della protagonista l’assiste.
L’olio su tela colpisce soprattutto per l’estrema violenza della scena: Giuditta, con forza impressionante, recide la testa del nemico. L’effetto tragico, quasi teatrale, è dato anche dall’impostazione del dipinto nel quale le figure sono illuminate dalla luce di una candela che irrompe nella tela da sinistra che lascia tutto lo spazio restante buio ed inquietante.
È proprio questa fioca luce che conduce l’attenzione dell’osservatore al climax dell’evento, dove su un letto si nota il possente corpo di Oloferne cedere alla rabbiosa forza di Giuditta che, con un gesto netto e preciso, recide la testa al nemico prendendone la distanza dal corpo, per evitare di farsi imbrattare dal sangue nemico. Ad aiutarla in questo assassinio, la fedele serva che con espressione impassibile tiene ferma la vittima schiacciandola con il proprio peso. Lo sguardo della ragazza sembra concentrato nel cruento atto e pare antitetico con l’aspetto della giovane: la grazia e bellezza della fanciulla si contrappongono al gesto macabro e sanguinario che sta compiendo. La Giuditta dipinta da Artemisia è molto interessante. È bellissima, sicura di sè, senza rimorso, anzi, sembra quasi divertita e si nota la soddisfazione della sua vendetta premeditata, della sua rivincita.
Nella storia originale la serva si limita ad attendere fuori dalla tenda: la Gentileschi scelse di far rivestire alla donna un ruolo attivo nell’uccisione: essa rappresenterebbe la solidarietà femminile, l’unione di due donne che aiutandosi a vicenda riescono a uccidere malvagi generali che neanche interi eserciti sono riusciti a sconfiggere. La serva inoltre non può che non ricordarci la vera serva di Artemisia, Tullia, che durante la violenza non le prestò soccorso e che addirittura testimoniò contro la Gentileschi al processo.
Il quadro risulta realizzato con grande cura e pazienza: da notare i minuziosi dettagli dei tessuti della scena delle espressioni dei personaggi: l'opera è inquietante ma allo stesso tempo affascinante, l’arte rende la violenza e le fontane di sangue eleganti, creando nello spettatore una sorta di catarsi aristotelica.
Oloferne è disperato, cerca di liberarsi come può ma è troppo tardi; c’è già molto sangue dalla tinta fosca e realistica che ormai si sta riversando sul bianco lenzuolo su cui posa l’uomo.
Di Sara Boughanmi, Liceo L. A. Seneca, 4°A
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