Di Damiano Lassini
Venti s’addensano intorno a me in tuffo
verso onde cristalline che nascondono
inamovibili scogli incombenti
che a breve, a fatica, potrò evitare.
Poi, risalito, ancora un’altra volta,
ti vedo bianca tremare sul baratro,
ti leggo in viso il macabro pensiero
che affonda il tuo cuore nella paura
e a questa roccia scura ti incatena
piena di un tenero, vano terrore.
Ancora grondante dal caldo abbraccio
del mare, ti sfioro la spalla e cerco,
mentre m’affaccio sul basso strapiombo,
di rincuorarti, e convincerti al salto,
di non preoccuparti del rimbombare
delle onde testarde contro la roccia,
che solo precipitando nel vuoto
si può ammirare la cresta del flutto
senza che esso ti sferzi indifferente.
Mi guardi con occhi persi nel vuoto
dell’orizzonte al di là del mio viso,
solo una voce d’amica ti sveglia,
un “non avere paura!” ti sprona...
Prendi coraggio, e in un salto leggero
gridi cadendo e scompari nel blu.
riemergi e raggiungi in fretta l’amica
ancora in balia dell’adrenalina,
ed io sorrido al vederti felice;
a farti ridere non sarò io,
ma il tuo sorriso spalanca anche il mio.
I venti mi raggiungono indifeso,
tremante di freddo, ancora bagnato;
mentre precipito l’ultima volta,
mentre volgi le spalle all’orizzonte.
Il sole tramonta oltre le dogane
e un pescatore, sotto di esse, ferra;
come dopo ogni tuffo non rimane
che uscire dall’acqua e tornare a terra
Ai più profondi conoscitori di Montale, questa ricorderà in tutto e per tutto “Falsetto”, la quinta poesia degli Ossi. Effettivamente questa poesia, scritta e ambientata proprio a Monterosso la riprende molto più che nei ricalchi nei versi (per esempio il primo ricorda l’incipit montaliano “Esterina, i vent’anni ti minacciano” come l’ultimo la conclusione “Ti guardiamo noi, della razza / di chi rimane a terra.”) o la struttura metrica (endecasillabi sciolti con rime interne), provando a rovesciare l’esperienza di Montale senza successo.
In “Falsetto”, il poeta osservava impotente dalla spiaggia una ragazza di cui era innamorato tuffarsi in mare da un alto trampolino, “[restando] a terra” appunto, troppo impaurito per raggiungerla. In questa poesia, che tratta sempre di un amore mai avvicinato e sempre su un’altra frequenza, sono io a tuffarmi dalla scogliera non riuscendo a condividere l’adrenalina con la ragazza troppo timorosa; il tuffo è metafora del rischio che bisogna prendere per arrivare a qualcosa, i “venti” che mi sferzano (i miei vent’anni che stavo per compiere) mi spingono a tuffarmi tra gli scogli pericolosi di una vita adulta che posso schivare ancora per poco per trovare il “caldo abbraccio / del mare” (l’amore che manca da troppo tempo).
Nonostante tutti i miei tentativi per convincerla a lasciarsi andare, lei non mi ascolta e continua a guardare l’orizzonte; si tufferà soltanto dopo uno banale sprono dell’amica, andando a esultare con lei per il successo e lasciandomi solo sulla scogliera, solo e impotente mentre il tempo passa (i venti tornano a sferzarmi e il sole tramonta dietro la casa dei doganieri, simbolo montaliano che incarna la fine di una speranza, qua solo accennato).
Se Montale era inchiodato a terra dalla sua paura e non si tuffava, io lo supero e mi tuffo, ma è tutta un’apparenza, alla fine, come tirato dall’amo del pescatore, sono sempre costretto a tuffarmi di nuovo soltanto per tornare a terra anche io, sotto la casa dei doganieri, quindi rassegnato.
Comments